INTERVISTA A PIETRO TANDEDDU*
Nel 1974 e fino al 22 novembre 1975 Peppino Catte, quale Assessore all’Agricoltura, si occupò intensamente della Riforma agro-pastorale e elaborò il Disegno di Legge che fu poi approvato in Consiglio come Legge 44 nel 1976. Lei che ha seguito il percorso di questo disegno di legge può esporre i contenuti della riforma e indicare gli elementi di novità delle soluzioni proposte?
Prima di entrare nel merito dei fatti economici relativi all’agricoltura negli anni della cosiddetta Riforma agro-pastorale, è opportuno richiamare le tappe storiche del processo di evoluzione del sistema economico agricolo regionale a partire dal dopoguerra.
Dopo la guerra noi abbiamo avuto in Sardegna, come in altre parti d’Italia, prevalentemente nel Mezzogiorno, le battaglie dei braccianti agricoli, che rivendicavano, anche facendo leva sul decreto Gullo-Segni, il recupero delle cosiddette terre incolte o mal coltivate. C’era una grande fame di terra, che si tentava di recuperare alla coltivazione attraverso l’occupazione delle grandi proprietà delle quali si rivendicava l’uso produttivo.
La storia del movimento contadino ha evidenziato che in diverse parti della Sardegna ci furono occupazioni delle terre, che portarono, tra l’altro, anche alla nascita di numerose cooperative, prevalentemente di braccianti. Questo nel Sassarese e nel Cagliaritano. Operano ancora diverse cooperative nate in quel periodo, nel territorio di Guspini, San Nicolò Arcidano, Serramanna, Pauli Arbarei. Questo movimento era stimolato soprattutto dalla Federterra.
Contestualmente poi, in base alla Legge di Riforma Agraria (chiamata Legge Stralcio, in quanto parte di una riforma più complessiva che non ebbe mai a concretizzarsi), in Sardegna furono espropriati, attraverso l’ETFAS, migliaia di ettari di terreni, che furono trasformati, appoderati e consegnati alle famiglie contadine e pastorali, in diverse parti dell’Isola.
Forse va detto che da un punto di vista sociologico e culturale questa tipologia di insediamento contrastava con la cultura agro-pastorale della Sardegna, regione nella quale i produttori agricoli vivono nei paesi e da questi si spostano verso la campagna, verso l’ovile, verso il vigneto. Con l’appoderamento si creavano aziende dove la famiglia contadina doveva risiedere, così come succede in molte altre parti d’Italia. Le nostre esperienze di vita decentrata sono rappresentate, per certi versi e come eccezione, dai “furriadroxius” del Sulcis e gli “stazzi” di Gallura. Per il resto vale la regola che i pastori e i contadini risiedono nei paesi e poi vanno a lavorare all’esterno del centro abitato.
La Legge Stralcio compì questa azione all’interno di una logica molto seguita dalla Democrazia Cristiana di allora e, per essa, dalla “Coltivatori Diretti”. Voglio ricordare che la Coldiretti nacque nel 1944, comprendendo forse prima di altri che le esigenze dei coltivatori diretti mal si conciliavano con quelle dei braccianti e che dovevano trovare una diversa collocazione organizzativa. In quel periodo, a sinistra dello schieramento politico, i contadini, lavoratori autonomi, erano ancora presenti in massa dentro la grande CGIL, nell’organizzazione dei lavoratori dipendenti. Occorre attendere il 1955 per vedere la nascita dell’Alleanza Nazionale dei Contadini, anche con la confluenza dell’Unione Regionale dei Contadini e Pastori Sardi costituitasi cinque anni prima. La DC e quindi la Coldiretti, seguiva la strada dell’assegnazione delle terre alla famiglia contadina attraverso la logica dell’appoderamento, perseguito attraverso strumenti come l’ETFAS.
Un secondo elemento di cambiamento si ha, negli anni ’60, con il 1° Piano di Rinascita.
Il 1° Piano di Rinascita si propone sostanzialmente l’obiettivo di un’adeguata infrastrutturazione del territorio. Segue la logica dei poli di sviluppo industriali; partono i poli della Chimica di base, prevalentemente. Nel contempo,però, il Piano di Rinascita si propone di intervenire nel settore agricolo, nelle fasi di raccolta, lavorazione e trasformazione delle produzioni agricole, perseguendo l’obiettivo che oggi definiremmo di “filiera”, con ciò intendendo il controllo da parte dei produttori delle diverse fasi produttive e cioè la produzione, la trasformazione e soprattutto la fase commerciale. Il produttore deve essere protagonista del suo destino, da quando produce fino a quando vende, in modo che il valore aggiunto della produzione torni a casa sua. Tutti noi consumatori dobbiamo sapere che quando andiamo al mercato, fatto 100 quel che paghiamo per l’acquisto di prodotti agricoli, 25 torna alla produzione, il resto si perde nella catena della distribuzione.
Ha inizio in quel periodo quel processo di aggregazione di contadini e pastori che porta alla costituzione e alla rivitalizzazione di diverse cooperative di trasformazione, nel settore viti-vinicolo ed in quello lattiero-caseario, riprendendo un percorso iniziato nei primi anni del novecento ed interrotto dal fascismo, quando PILI, sardista, animatore del movimento cooperativo, sino a costituire una Federazione di caseifici che esportava in America, non passa al Partito fascista .
È una fase, questa, molto importante per lo sviluppo dell’agricoltura sarda. Catte fu protagonista di quel rinnovamento.
Fin dal 1965-66 riproponeva il problema della commercializzazione dei prodotti lattiero-caseari. Nell’estate del ‘66 aveva contattato il Consolato italiano a New York per chiarire le cause delle difficoltà nella vendita del pecorino romano nel mercato americano. Era emersa la necessità di creare in Sardegna una struttura che unisse le cooperative e che rafforzasse il loro potere contrattuale.
Si, credo che Peppino Catte avesse chiaro ove occorreva andare.
A fine anni ‘60, inizio anni ’70, assume notevole pregnanza e determina nuova attenzione politica il problema delle condizioni sociali, civili ed economiche dei pastori delle zone interne, anche per l’acuirsi di un malessere sociale che si rilevava in quelle aree, con sequestri di persone e altri reati. Per cui, fatto politico di grande rilevanza, fu costituita una Commissione Parlamentare di Inchiesta sul Banditismo in Sardegna, che doveva rilevare le cause strutturali di questo malessere e proporre soluzioni per il suo superamento.
Il dibattito non fu rinchiuso nelle aule parlamentari, ma vi fu un coinvolgimento molto forte delle popolazioni, delle varie categorie.
Catte in una audizione alla Commissione Parlamentare aveva dato un contributo importante su questo problema. Intervenendo anche in Consiglio Regionale, nel settembre 1966, aveva affermato che le cause della delinquenza, dovevano ricercarsi nella precarietà della condizione del pastore; solo la trasformazione dell’ambiente e delle strutture economiche e sociali e il popolamento delle campagne avrebbero potuto consentire la soluzione del problema.
La Commissione tenne conto delle varie analisi e le conclusioni dell’inchiesta portarono come risultato all’approvazione del 2° Piano di Rinascita, cioè la legge 268. È questa legge che si pone il problema dell’ammodernamento delle strutture agro-pastorali in Sardegna. Con quali obiettivi?
Si partiva dalla constatazione che esistevano nell’Isola molti pastori che disponevano del capitale bestiame, ma non disponevano del possesso della terra e che pertanto occorreva dare una stabilità al pastore sui fondi, in modo che potesse effettuare il passaggio da semplice “guardiano di pecore”, su terreni comunali o in affitto, a moderno imprenditore.
Già si rilevava in Toscana, ove i mezzadri avevano liberato tante terre che erano state acquisite da pastori sardi attraverso la legge sulla piccola proprietà contadina che essi, in condizioni di stabilità, riuscivano ad esaltare abilmente le proprie capacità imprenditoriali. Oggi in Toscana e anche in Emilia e nel Lazio si vedono numerose aziende agricole e zootecniche economicamente fiorenti, che sono il frutto del lavoro dei pastori sardi.
L’obiettivo fondamentale della legge 268 era quindi quello di stabilizzare i pastori sui fondi agricoli, rendendoli protagonisti delle loro vicende imprenditoriali.
Questa ipotesi venne studiata a fondo da Peppino Catte, allora Assessore all’Agricoltura, che sulla base della legge 268, elaborò un piano di Riforma agro-pastorale. Il progetto prevedeva la creazione di un “Monte Pascoli”, che avrebbe potuto assicurare ai pastori la disponibilità del capitale terra per le loro imprese. Questo piano, tradotto in Disegno di Legge, fu approvato come Legge 44 dal Consiglio Regionale nel 1976, quando Peppino Catte, padre della riforma, non c’era più.
La realizzazione di questo piano ha incontrato degli ostacoli?
Il disegno di legge prevedeva l’esproprio di terreni a pascolo permanente, non sufficientemente utilizzati, un po’ riprendendo lo spirito della legge Gullo-Segni, per andare a costituire il cosiddetto Monte Pascoli. Si prevedeva anche l’acquisizione di terreni per la costituzione di aziende foraggiere, perché nelle condizioni di allora il carico di bestiame presente in Sardegna aveva necessità di un notevole apporto di mangimi e foraggi esterni, che naturalmente pesavano sui costi aziendali; si poneva quindi l’obiettivo di produrli in Sardegna. Si quantificava in circa 400.000 ettari le necessità di acquisizione di terre,attraverso la forma dell’esproprio, per la successiva assegnazione ai pastori, preferibilmente associati.
Che cosa è avvenuto? L’esproprio era una parola che nell’uomo destava e desta forti preoccupazioni e ansie. Si evidenzia sull’argomento una netta frattura fra la Destra (la DC in particolare) e la Sinistra (il PCI di allora e il PSI). La costituzione di queste aziende a mezzo esproprio metteva a nudo divisioni e incrostazioni di carattere ideologico. Nei dibattiti locali non erano rari i riferimenti alla collettivizzazione sovietica e ai Kolkoz.
Cooperative di pastori ne furono costituite diverse e molte rimangono come elemento di modernità, pur con tutti i loro problemi, che vanno collocati all’interno delle difficoltà più generali dell’agricoltura.
Voglio ricordare la cooperativa di Irgoli, la cooperativa di pastori di Dorgali, la cooperativa di Massiloi, tra Orgosolo e Fonni, la cooperativa s’Ispiritu Santu a Nuoro, la cooperativa Lochele di Sedilo, così, al sud, la cooperativa di Villasalto e quella di S. Basilio, alcune delle quali sono ancora in possesso di migliaia di ettari di terreno.
Per dare un dato: oggi vi sono non meno di 12.000 ettari di terreno del demanio regionale, del “monte pascoli” in possesso di cooperative di pastori o di cooperative di giovani; infatti anche i giovani negli anni ’70, forse sulla spinta delle leggi di promozione dell’imprenditoria giovanile, la legge nazionale 285, e quella successiva regionale n° 50, chiedevano di tornare alla terra. Questo è stato un elemento importante che ha favorito l’opera di ringiovanimento della forza lavoro in agricoltura, introducendo nel settore elementi di maggiore modernità.
A dire il vero, anche le resistenze della DC furono superate e in un secondo tempo questo partito si fece protagonista dello sviluppo e dell’ammodernamento delle aziende agro-pastorali.
Quali difficoltà incontrò l’esproprio, una volta che erano caduti i pregiudizi della Destra? Vi furono problemi di carattere tecnico e procedurale? Oppure la Regione non disponeva di fondi sufficienti per gli indennizzi?
L’esproprio trovò fortissimi ostacoli sul piano procedurale-tecnico, per la paura di ricorsi, contro-ricorsi, interventi della magistratura. Alla fine si acquisirono al Monte dei Pascoli tutti i terreni che i proprietari decisero di offrire volontariamente al demanio regionale, per loro interesse; mentre non fu espropriato neanche un ettaro di terreno. Quindi, questa parte della legge relativa all’esproprio non fu mai attuata, e difficilmente poteva essere messa in atto proprio per le difficoltà enunciate.
Per quanto riguarda l’aspetto finanziario, i fondi non mancavano e non vi fu difficoltà ad utilizzare quelli disponibili per l’acquisizione dei 12.000 ettari di terreno citati. Per la loro destinazione ha prevalso l’assegnazione ad organismi associati (cooperative); il che è stato un bene perché ha consentito di creare aziende di una certa dimensione e di evitare,in quei casi, il fenomeno della frammentazione. Va ricordato che in Sardegna, non molti anni dopo l’assegnazione dei poderi Ersat, molte aziende furono abbandonate perché al di sotto della soglia dimensionale di economicità produttiva, dando vigore al flusso migratorio che caratterizzò quegli anni. Anche per altre acquisizioni le risorse c’erano e si sarebbero comunque trovate. Ma in questa parte il processo è stata interrotto e io credo che non sia più percorribile, anche per le mutate condizioni della struttura fondiaria in Sardegna.
In che misura sono stati realizzati gli obiettivi della riforma?
La riforma ha realizzato almeno una parte dei suoi obiettivi, anche perché integrata dagli acquisti di terreni tra privati, favoriti dalle leggi sulla piccola proprietà contadina già citata, che hanno consentito ai pastori di comprare le terre a condizioni agevolate. L’assegnazione di terreni da parte della Regione alle cooperative e le operazioni dei privati hanno in effetti mutato l’assetto proprietario delle strutture fondiarie in Sardegna. Nella Nurra moltissime proprietà sono passate agli orunesi o ai bittesi; nel Sulcis i terreni sono passati in gran parte ai desulesi, nell’Oristanese sono in mano ai gavoesi e nel Campidano di Cagliari ai fonnesi; la transumanza registrava i suoi limiti e doveva essere superata, o ricondotta entro un moderno sistema di gestione aziendale. Il complesso di queste disposizioni ha determinato uno sconvolgimento positivo e consentito un notevole ammodernamento. Oggi le pecore sono più curate e ben alimentate e le produzioni sono molto più elevate; anzi si pone il problema di contenere la produzione lattiera, migliorandone nel contempo la qualità e la resa, da remunerare sulla base di ben individuati parametri. Ciò è frutto innanzi tutto, certo non solo, del processo di stabilizzazione degli allevatori che ha consentito di fare investimenti, mentre su terreni in affitto non conveniva, o non era , di norma, consentito investire.
La legge 268 nella seconda parte si poneva obiettivi più ambiziosi e importanti. Si trattava di continuare il percorso del controllo diretto da parte dei produttori, delle loro produzioni sino alla fase di vendita finale al consumo. Per questi fini la legge determinò la predisposizione ed approvazione, negli anni 1976/1978, del Progetto Promozionale per i tre comparti fondamentali dell’agricoltura sarda: il settore ortofrutticolo, il settore vitivinicolo e il settore lattiero-caseario.
In che cosa consistevano questi progetti promozionali? Quali strumenti intendevano creare?
Nella sostanza, il Progetto aveva come obiettivo quello di sostenere lo sviluppo di strutture consortili costituite dalle cooperative di 1° grado già operanti con il fine di realizzare un maggiore valore aggiunto dei prodotti attraverso l’ingresso in campi tecnologicamente più avanzati e di costituire forti aggregazioni commerciali capaci di affrontare il mercato nazionale ed estero.
Nel settore ortofrutticolo,ove agivano le centrali ortofrutticole di Elmas, la centrale agrumicola di Muravera, la centrale agrumicola di Villacidro, la centrale ortofrutticola di Tortolì, unitamente ad altre diverse cooperative, prevalentemente indirizzate al controllo della produzione del carciofo, come a Villasor, a Serramanna, Samassi l’obiettivo più ambizioso era il controllo dell’industria di trasformazione della CASAR. Il controllo della CASAR non è avvenuto. L’acquisizione, da parte dei produttori, della fabbrica non fu possibile; la struttura pertanto fu acquisita dalla Regione, che l’ha gestita per anni rimettendoci parecchi quattrini. Ora è nuovamente in mano ad un privato. Né ha avuto miglior fortuna la realizzazione nell’Oristanese, in posizione baricentrica, da parte del Consorzio Regionale Ortofrutticolo (CO.RE.OR), dell’impianto di surgelazione dei prodotti ortofrutticoli, progettato con l’idea di realizzare un valore aggiunto superiore, con l’introduzione di processi produttivi che utilizzano tecnologie avanzate.
Nel settore vitivinicolo c’era la presenza di numerose cantine sociali, forse troppe, come forse troppi erano i caseifici, ma va sottolineato che le numerose presenze di strutture produttive, certo frutto anche di spirito campanilistico, trovavano giustificazione nelle difficoltà di trasporto di allora con una rete stradale di difficile percorribilità. L’obiettivo che allora ci si proponeva nel comparto viti-vinicolo era la costituzione di un Consorzio delle cantine sociali che si dedicasse all’imbottigliamento di vini di qualità, riducendo le grandi quantità di vino sfuso che allora si esitavano nel mercato ,con scarso profitto, come vino da taglio. Ma anche questo è stato un fallimento, perché il Consorzio unitario da localizzare a Sanluri non è mai decollato.
Tra gli obiettivi che l’Assessorato Regionale si poneva con Peppino Catte vi era la costituzione di un Consorzio Regionale delle Latterie Sociali. Che sviluppi ebbe quell’idea?
I caseifici sociali andarono effettivamente a costituire il Consorzio Regionale, il “Consorzio Sardegna”, con il contributo di figure autorevoli del movimento cooperativo quali Pietrino Melis, Francesco Manconi e Maurizio Catte che sono stati fattivi protagonisti nella realizzazione di quel progetto .
Il Consorzio Sardegna ha portato avanti per diversi ani la sua attività fino a concentrare una massa critica di formaggi che valeva 60 miliardi di vecchie lire con consistenti flussi di esportazione di pecorino romano negli Stati Uniti. Poi anche questo Consorzio, per diverse vicende, è entrato in una fase di crisi che lo ha portato alla liquidazione, con il risultato di aggravare le condizioni di debolezza dei produttori nel confronto con il mercato, condizioni comuni ancora oggi a tutti i comparti produttivi. L’obiettivo più importante che si era prefissato il 2° Piano di Rinascita è ancora lì, davanti a tutti noi.
Maurizio Catte, che ha lavorato per la istituzione e la gestione del Consorzio Sardegna, sostiene che dopo il 1975 vi è stato un allentamento della tensione che aveva animato le istituzioni e le cooperative. Lei che cosa ne pensa?
Condivido quanto osservato da Maurizio Catte.
Vi è stata una caduta di attenzione della politica verso l’agricoltura che a me appare ancora oggi inspiegabile. Forse è da attribuire ad una visione, secondo me limitata, che ha visto e vede l’agricoltura come semplice, debole, elemento dell’economia. L’agricoltura invece, oltre che parte dell’economia, va considerata per il suo alto valore sociale, civile, culturale; la presenza dei contadini e pastori nelle campagne è elemento di vita,di preservazione di culture, di saperi, dell’ambiente, specie delle zone interne, è elemento di antispopolamento e non può essere vista solo in chiave strettamente economica. Una caduta di attenzione verso l’agricoltura, si sarebbe forse potuta capire in presenza di forti processi di sviluppo di altri settori, come l’industria e i servizi, dato che in qualunque paese che si sviluppa, il settore primario, determina i processi di accumulazione, che garantiscono poi industrializzazione e lo sviluppo dei servizi, andando a ridurre sempre più la sua influenza nella formazione della ricchezza di una nazione. Ma non siamo, ancora oggi, in presenza di un’adeguata industrializzazione, anzi, né i servizi sono in Sardegna caratterizzati da efficienza e modernità. In Sardegna nel settore agricolo vi è oggi una quantità di addetti mediamente superiore alle altre regioni italiane. Questo non è un fatto del tutto positivo, perché è determinato dalla crisi degli altri settori: la scelta di operare nel comparto, è spesso una scelta obbligata, come nel caso dei pastori “di ritorno”, quelli che dopo essere diventati operai, sono stati posti in cassa integrazione e licenziati e sono dovuti ritornare alla terra. La Sardegna non ha conosciuto un processo di industrializzazione vero, non ha conosciuto un processo di verticalizzazione della chimica attraverso la chimica fine, come si auspicava negli anni sessanta. Oggi le Partecipazioni Statali hanno fallito il loro compito, sono scomparse dalla Sardegna, lasciando il deserto.
Anche nel campo dei Servizi non possiamo dire che si tratti di servizi avanzati: in Sardegna c’è una incidenza di Pubblica Amministrazione superiore alle altre regioni dello stesso Mezzogiorno che falsa il giudizio nella valutazione di questo settore.
Si intravede un cambiamento di rotta? Quali le prospettive del comparto agro-pastorale oggi e per il futuro?
Oggi vi è una ripresa di attenzione,anche per via delle diverse crisi che hanno investito il settore agricolo e pastorale e che causano squilibri sociali non sempre governabili. Le emergenze sono tante e tali che si fa fatica ad affrontarle. Restano sempre validi quegli obiettivi che anche P. Catte si poneva quando sosteneva,relativamente alle produzioni lattiero-casearie, che bisognava produrre per il mercato. E già allora il mercato americano si sarebbe dovuto affrontare con interlocutori forti. Ancora oggi parliamo del mercato americano perché il latte ovino della Sardegna ,in prevalenza ,diventa pecorino romano, che noi sardi praticamente non consumiamo, ma che è uno dei formaggi più esportati all’estero. Rimangono in piedi tutti quei nodi che Catte evidenziava già nel 1966 e che devono essere superati, se vogliamo che i pastori e tutti i produttori si approprino del frutto del loro lavoro.
Oggi la Regione deve riprendere quelle tematiche.
In primo luogo deve costruire progetti di filiera in ogni comparto, orientando le aziende al mercato e alla qualità.
I produttori normalmente si pongono il problema di produrre, poi il problema della trasformazione, ed in ultima analisi quello della commercializzazione. Oggi dobbiamo ribaltare il concetto: dobbiamo innanzitutto avere chiaro che cosa il mercato richiede, quali sono le sue tendenze cosa siamo in grado di imporre per qualità e quantità, per stabilire, a ritroso, cosa produrre e trasformare. Non dobbiamo nasconderci le difficoltà che vengono da un mercato globalizzato. Il mondo è diventato piccolo, per cui navi, container e aerei sono in grado di portare, in ventiquattro ore, merci da tutto il mondo e ci portano a volte prodotti di imitazione, a prezzi notevolmente inferiori ai nostri costi di produzione, perché, nella maggioranza dei casi, il costo della manodopera nel mondo sottosviluppato si aggira sui 70, 80, 100 euro al mese; cosa che naturalmente noi non possiamo, né dobbiamo imporre a nessuno, né in Italia, né in Sardegna.
Un’azione di riequilibrio, nel rapporto con i paesi in via di sviluppo, penso che si avrà quando ci sarà una “ globalizzazione dei diritti”, perché un paese come la Cina, se vogliamo fare l’esempio di un nostro forte competitore anche nel settore agricolo, non potrà a lungo reprimere e soffocare le giuste aspirazioni dei lavoratori cinesi.
La causa maggiore della concorrenza è certamente il basso costo della manodopera; però altri paesi riescono a produrre a costi notevolmente inferiori pagando la manodopera quanto la paghiamo noi, perché le condizioni di produzione sono diverse. Ad esempio, si inizia a delineare una concorrenza sul mercato dei vini che viene dall’Australia, perché la superficie media del vigneto australiano è di 300 ettari, mentre la nostra è di mezzo ettaro, anche meno. È chiaro che ciò consente un enorme abbassamento dei costi. Vi è allora il problema di combattere questa concorrenza spietata.
Già negli anni dal ‘65 al ‘75 Peppino Catte sosteneva la necessità di puntare sulla qualità dei prodotti e sulla diversificazione, soprattutto nel comparto lattiero-caseario, ma anche negli altri comparti.
Erano concetti di preveggenza: anche oggi ciò rimane fondamentale. La strada è proprio questa, unitamente all’innovazione di processo e di prodotto. Se noi tentassimo di combattere la concorrenza internazionale mantenendo un basso livello qualitativo, per le ragioni già esposte,sarebbe partita persa in partenza. La strada che noi dobbiamo percorrere è certamente la qualificazione delle produzioni.
Bisogna però intenderci sul concetto di qualità: qualità vuol dire che il prodotto è buono, saporito, sano, salubre e ,possibilmente, anche biologico. Una fascia sempre più larga di consumatori ed alcuni paesi, come la Germania, sono molto sensibile al biologico. Ma la qualità delle produzioni si esprime anche marcando la loro identità, il loro diretto legame con il territorio di provenienza, con intrinseche caratteristiche che ne fanno un prodotto inimitabile. Con queste qualità globali possiamo presentare sul mercato prodotti che non possono essere reperiti in altre aree. Ad esempio, l’Australia non può certo produrre un Cannonau come il nostro che esprime le sue massime potenzialità solo in Sardegna, in questo tipo di terreno, con questo clima. Dobbiamo essere in grado, inoltre, di “vendere la Sardegna”, cioè una identità, una storia , un ambiente, una cultura; vendere la Sardegna vuol dire anche fare turismo in termini assolutamente nuovi. Il turismo deve essere concepito e sostenuto come comparto capace di integrare le strutture ricettive e di ristorazione con la valorizzazione dei beni culturali, le produzioni agro-alimentari, artigianali e artistiche.
Ecco perché si inizia a parlare, anche per effetto di disposizioni di legge, di Sistemi Turistici Locali. La qualità delle produzioni è l’ultima leva che ci rimane in una regione che non può competere sulla quantità. Vendere ciò che richiede il mercato, senza subirlo ogni volta, puntando sulle nostre qualità.
La Regione, le Organizzazioni professionali agricole, chiunque vi abbia titolo, devono convincere i pastori, gli olivicoltori, i viticoltori a unirsi in Organizzazioni di Produttori capaci di controllare i processi di filiera, determinare quanto meno, con la concentrazione delle produzioni, un potere contrattuale forte verso il mercato.
Le O.P. (Organizzazioni di Produttori) sono organismi democratici, concepiti dalla legislazione nazionale per rimanere nel pieno possesso dei produttori, quindi non gestiti da terzi. La Regione può sostenere questi strumenti, anche nei rapporti con la Grande Distribuzione. Ma devono essere capaci di dotarsi delle risorse umane richieste oggi da un mercato sempre più concorrenziale e difficile.
È possibile che questa Organizzazione di Produttori riesca a creare una rete di distribuzione in tutto il territorio nazionale, riesca cioè a superare le difficoltà che il Consorzio Sardegna incontrava negli anni ’70 e ’80?
Quando ragionavamo con Maurizio Catte nel Consorzio Sardegna sul modo di superare le difficoltà nel rapporto con la distribuzione, specie considerando la nostra condizione di insularità, stavamo lavorando per l’acquisizione di un centro di raccolta e di distribuzione nei pressi dell’anulare di Roma, da dove far partire la distribuzione dei formaggi in tutta l’area centrale e meridionale del continente, e per l’acquisizione di un altro centro nel Nord d’Italia. Dico questo per dire che vanno create le condizioni e le strutture necessarie, sempre che dietro il responsabile commerciale ci sia garanzia delle quantità contrattate, qualità del prodotto e capacità di servizio, che allora non si aveva.
Esiste oggi, come ieri, Coop. Italia, la più grande catena di distribuzione italiana ,figlia del movimento cooperativo. Eppure abbiamo avuto forti difficoltà con Maurizio Catte a far entrare in quella struttura, in qualità di fornitore, il Consorzio Sardegna. E chi è entrato in Toscana nella rete delle cooperative di consumo? Un industriale sardo, avendo realizzato a suo tempo un magazzino centrale in un Comune della Toscana, che gli consentiva, unitamente alle sue capacità imprenditoriali di offrire quantità, qualità e servizi . Cosa che noi non eravamo preparati a fare.
Quelle debolezze di ieri sono le debolezze di oggi. Compete alla Regione favorirne il superamento offrendo la giusta sponda ai produttori se vi è da parte loro forte convinzione e impegno, nella logica dell’“aiutati che Dio ti aiuta”.
Poi naturalmente la Regione, come istituzione, deve contribuire a superare altri elementi di carattere orizzontale rappresentati da storiche diseconomie per la Sardegna, cioè risolvere il problema dei trasporti, dell’energia, dell’acqua, del credito, dell’assistenza tecnica, di una forte ricerca e formazione.
Le difficoltà nei trasporti sono un problema serio per chi esporta; è un tema di attualità che sarebbe troppo lungo da affrontare in questa sede. Il problema dell’energia tocca anche il settore agricolo, perché, ad esempio riscaldare le serre costa, ed è difficile competere con chi, come l’Olanda, ha il metano a basso costo. Non si può fare agricoltura senza la disponibilità dell’acqua, a costi accettabili, sapendo che questo è ottenibile con una sana gestione dei Consorzi di Bonifica. Per quanto riguarda l’assistenza tecnica, essa deve saper accompagnare i produttori, di assisterli nel loro percorso di modernizzazione. Le aziende devono essere supportate, sia nella ricerca di prodotti nuovi, sia nella innovazione dei processi produttivi, sia nel miglioramento della qualità.
Tra gli elementi di carattere orizzontale sui quali può intervenire la Regione lei ha indicato anche il credito. Che soluzioni intende adottare la Regione per superare tali difficoltà?
Il problema del credito è un nodo molto serio per i nostri produttori,singoli od associati, già sollevato a suo tempo dallo stesso Peppino Catte. Una cooperativa che riceve dai suoi associati latte, olio o uva, deve attendere mesi per esitare il prodotto trasformato sul mercato, ma non può remunerare i conferimenti a vendita conclusa; necessita di credito per le anticipazioni ai propri soci, sotto forma di acconti, e di far fronte a tutte le spese di esercizio. È pertanto indispensabile ricorrere al credito bancario, ma l’accesso al credito non è facile, per ragioni di costi e di garanzie Pertanto bisogna studiare strumenti che lo facilitino. È ciò che si sta cercando di fare. L’accesso al credito, per esempio, può essere favorito dall’azione dei Consorzi-fidi e la Regione intende rafforzarli con l’incremento dei loro fondi rischi, elevandone il loro potere contrattuale verso le Banche. È possibile oggi l’intervento di supporto di organismi statali come l’ISMEA tant’è che la Regione Sardegna ha stipulato con esso una specifica convenzione, contestualmente alla messa a disposizione per le aziende isolane di 5 milioni di euro, per agevolare l’accesso al credito attraverso la fornitura di garanzie. In Sardegna si potrebbe rivedere il ruolo della SFIRS, che potrebbe esaltare il suo ruolo di merchant bank, cioè di finanziaria di partecipazione, o di finanziaria di venture capital che, valutata a monte la bontà del progetto, rischi insieme all’imprenditore nella concretizzazione dell’impresa, premiando le intelligenze anziché i patrimoni ,spesso non supportati da vere capacità. Ciò richiede per le finanziarie e per gli istituti di credito un salto culturale verso il quale spero vi sia la massima disponibilità. In caso contrario, le politiche di programmazione delle Istituzioni rischiano di essere compromesse da una contrastante azione di programmazione “reale” sul fronte finanziario che sovrasta quella “formale”.
Un altro problema molto serio è il drenaggio del danaro depositato presso le banche dai nostri risparmiatori, che viene investito in una percentuale rilevante, in altre regioni. Già negli anni ‘60 Catte aveva rilevato questo fenomeno: il danaro raccolto dalle banche in Sardegna veniva impiegato nell’isola in misura molto ridotta. Anche il Banco di Sardegna seguiva più o meno la stessa linea.
È una tematica attuale anche questa. Il Banco di Sardegna era la banca dei sardi, la banca locale. Supportato dalla Banca d’Italia, il Banco di Sardegna ha acquisito tutte le Casse Comunali di credito agrario, che erano in origine soggetti democratici posti sotto il controllo delle istituzioni regionali. Le casse comunali erano presenti in quasi tutti i comuni della Sardegna. La forza del Banco di Sardegna è data oggi proprio dalla sua presenza capillare sul territorio, cosa che non hanno le altre banche, che sono invece radicate prevalentemente nei capoluoghi provinciali. Il problema delle casse comunali era stato studiato da Nino Carrus, che aveva anche presentato una proposta in Parlamento per il recupero delle Casse al controllo dei Sardi, ma senza alcun risultato. Il Banco di Sardegna, attraverso questa sua presenza capillare ha un potere di raccolta di risparmio molto più forte rispetto alle altre banche, ma non sempre gli impieghi nell’Isola sono proporzionali a questa capacità. Con l’acquisizione del Banco di Sardegna da parte di una banca esterna, la Banca Popolare dell’Emilia Romagna, è chiaro che l’attenzione verso l’economia locale può essere condizionata da altri interessi.
C’è chi dice che anche le banche sono imprese e non devono fare assistenza sociale. Ciò è vero: le banche sono imprese, devono andare a costi e ricavi, e non ci devono rimettere. Però non sono imprese qualunque per cui è estremamente importante che abbiano un forte rapporto di interlocuzione forte con le forze politiche ed istituzionali locali, per ricercare insieme e condividere le linee dello sviluppo, certo non per essere a loro sottomesse.
Prima di concludere questa intervista vorrei ricordare una preoccupazione di Peppino Catte come legislatore. Egli sosteneva che non basta una buona legge di riforma: ciò che conta è la sua attuazione, la vigilanza dei diretti interessati, dei protagonisti e delle loro organizzazioni, una vigilanza che deve permanere in tutto il percorso di attuazione.
Credo che questa considerazione di Peppino Catte sia un concetto sempre valido, ieri come oggi e domani. È vero, non bastano le buone leggi. Le leggi vanno, talvolta ben interpretate e poi bene applicate. La vigilanza dei cittadini, delle istituzioni locali, delle rappresentanze democratiche economiche e sociali è fondamentale, in una vera democrazia.
………
* Pietro Tandeddu è un esperto di politica economica, in particolare del settore agro-alimentare e di quello finanziario. Già dirigente del movimento contadino e cooperativo in Sardegna, ha ricoperto importanti ruoli anche a livello nazionale, collaborando alla stesura di leggi regionali in questi settori.
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