IL DOCENTE E L’UOMO DI CULTURA
Sono passati trent’anni dalla morte improvvisa e prematura di un grande intellettuale, Peppino Catte. Una occasione da cogliere per ricordarne la personalità, per riflettere sul significato e la portata del suo impegno di docente, di politico, sul lascito della sua grande umanità.
È stato un privilegio averlo come Maestro. Il suo insegnamento ha rappresentato, per una generazione di giovani barbaricini, una esperienza preziosa e, per quanto mi riguarda, ha segnato in modo incisivo la mia formazione culturale. Era uno studioso che amava i classici e i moderni e li leggeva e li interpretava con sensibilità critica, con intelligenza storiografica, sempre attento a dar conto dei processi storico-culturali attraverso la personalità dell’autore e la lettura diretta dei testi. In questo principalmente consiste la modernità del suo insegnamento, fondato sulla scelta di un metodo innovativo, di matrice storicistica che negli anni che seguirono alla seconda guerra mondiale andava superando l’egemonia del crocianesimo. Una esperienza culturale di ampio respiro documentata dall’adozione, nel Liceo classico di Nuoro, di testi scolastici come il nuovissimo manuale di letteratura italiana di Natalino Sapegno, coerente col disegno storico e filosofico a cui si informavano rispettivamente i manuali di Armando Saitta, e di Nicola Abbagnano. Si disegnava una prospettiva culturale nuova, aperta al confronto con i processi storici, con idee ed esperienze nuove, con espressioni d’arte, in controtendenza con la persistenza di forme di autarchismo culturale, dominanti in periodo fascista.
Da queste sollecitazioni della memoria parte la mia testimonianza che scivola nel tempo, fra i banchi di scuola, nella Nuoro di più di cinquantanni fa, negli anni subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. E più precisamente nelle aule del Liceo-Ginnasio “Giorgio Asproni”.
L’edificio è oggi lo stesso di tanti anni fa; e ogni volta che torno a Nuoro mi fermo a guardarlo, rassicurata, perché la sua forma architettonica, così sobriamente solenne, è sempre quella della mia adolescenza: la gradinata, l’atrio, gli spazi interni, le aule, un’aria familiare densa di invisibili stratificazioni, dove si sono depositate le ansie, i sogni, le risate, gli anni giovani di molte generazioni. La mia classe, composta da una ventina di studenti, era una classe mista, in gran parte femminile. I sei compagni di classe, ingiustamente in minoranza, camuffavano un certo imbarazzo con intelligente ironia e noncurante rispetto per le compagne più “secchione”; in compenso avevano uno spazio privilegiato negli ultimi banchi, dove potevano distrarsi impegnandosi in partite a carte o a battaglia navale, durante alcune ore più permissive. La classe mista era allora una novità, perché consentiva a ragazze e ragazzi di condividere una esperienza di vita scolastica in comune, di stabilire rapporti di amicizia (non ci sono stati né matrimoni, né fidanzamenti tra compagni; forse innamoramenti, ma non confessati) in un tempo in cui le classi erano distinte rigorosamente in maschili e femminili e i rapporti tra ragazzi e ragazze erano sottoposti a un rigido controllo sociale.
Nella classe si era sviluppata una proficua esperienza di collaborazione, attraverso un lavoro di gruppo che consentiva una maggior libertà di comunicazione e scambio, sollecitava curiosità e una sorta di gara guidata anche dal piacere di scoprire e condividere nuove conoscenze; da parte loro gli insegnanti assecondavano questo lavoro in comune con una sensibilità pedagogica che li poneva all’avanguardia.
Non sto cadendo nella trappola del laudator temporis acti; ma va ricordato che, finita la guerra e liberata l’Italia dal fascismo, si respirava un’aria nuova; si ritornava con fiducia alla normalità, ansiosi di recuperare il tempo perduto, di dar vita a una nuova cultura, guardando al futuro.
Richiama efficacemente il clima del tempo un testimone e protagonista d’eccezione come Italo Calvino che ne scrive, a distanza di anni nella Prefazione all’edizione del 1964 del romanzo Il sentiero dei nidi di ragno (la prima edizione è del 1947):
“L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi di una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio: ma l’accento che vi mettevamo era quello di una spavalda allegria. Molte cose nacquero da questo clima”.
Anche Nuoro prende parte alla gioia di una ritrovata libertà; e anche se, nella sua perifericità, era rimasta estranea agli eventi più drammatici di cui aveva sentito raccontare l’orrore dai molti sfollati che erano arrivati soprattutto da Cagliari, ridotta in macerie, aveva pagato il suo prezzo: moltissimi giovani erano partiti in guerra e altri erano stati incarcerati o costretti all’esilio dall’ oppressione fascista.
In questo clima si riconoscevano anche alcuni dei nostri insegnanti più giovani partecipi della stessa “tensione morale”, dello stesso “gusto letterario” che dava slancio e senso al loro compito volto alla formazione culturale e umana di giovani ai quali era destinata una stagione migliore: il ritorno alla vita democratica, all’impegno politico, sociale, culturale, alla attività nei partiti e nelle associazioni laiche e cattoliche.
Anche gli studenti del Liceo nuorese, come del resto tutti gli studenti, vantano nel loro album scolastico qualche insegnante modesto o inadeguato; ma era opinione diffusa che nel Liceo Asproni in quegli anni operasse una classe docente autorevole. Alcuni insegnanti erano addirittura eccezionali, come il professor Peppino Catte, a cui studenti e colleghi riconoscevano una cultura di notevole spessore e modernità. Alla sua vasta preparazione umanistica, allargata al cinema, univa competenze economiche, storiche, oltre che politiche maturate nel corso di una esperienza nel Ministero dell’agricoltura. Per questo la cifra che contraddistingueva il suo insegnamento era dettata da una visione realistica e insieme dinamica che amava confrontare i fatti del passato con la contemporaneità. Una espressione ricorrente nelle sue lezioni era la sottolineatura dei legami tra idee, modelli, situazioni ricorrenti nei processi culturali; di qui l’interesse ad approfondire i momenti di crisi, di passaggio, nel loro significato di svolta, nella valorizzazione dei legami tra tradizione e modernità. Una chiave di lettura utile a meglio comprendere il nostro tempo. A distanza di anni la sua visione pedagogica mi pare lungimirante e persuasiva anche perché animata da una grande passione che accompagnava il suo impegno quotidiano.
Nell’anno 1949-50, professor Catte insegnava latino e greco e, l’anno successivo 1950-51, italiano e latino. Ricordo in particolare quest’ultimo che concludeva i miei studi liceali, vissuti sotto l’incubo di una prova di maturità allora gravosa e temutissima. Solo più tardi ho compreso l’importanza di questo periodo della mia formazione, improntato al rigore e all’interesse per il sapere: una esperienza irripetibile, decisiva anche per le scelte future.
Il nostro tempo era dedito principalmente allo studio; forse facevamo di necessità virtù, considerato che gli interessi extrascolastici, le occasioni per il tempo libero erano quasi inesistenti. C’era il cinema, ma anch’esso consentito solo se di interesse culturale, altrimenti proibito o per lo meno controllato; in compenso abbondavano le passeggiate alla “Solitudine” o a “Caparedda” e i giri al Corso, controbilanciati dalla partecipazione, sempre in gruppo, alle novene ricorrenti in vari mesi dell’anno. Occasioni che rinsaldavano le amicizie e favorivano un maggior affiatamento e la condivisione di esperienze.
In un progetto di vita semplice e ordinata rientrava l’applicazione allo studio soprattutto come dovere. Il Liceo vantava una tradizione di studi seri, garantiti dalla competenza di docenti che venivano spesso da esperienze di studi in prestigiose università italiane; e anche gli studenti che sceglievano di frequentare il Liceo si erano già distinti per impegno e disciplina, come si diceva “ erano portati allo studio”. Il modello dei genitori che spesso affrontavano grandi sacrifici per garantire ai figli il corso di studi universitari agiva da stimolo; e i figli, come nota anche Salvatore Satta nel suo romanzo “nuorese”, rispondevano ai loro progetti. L’ istituzione della scuola media unica diffusa in tutti i paesi era ancora lontana e la selezione naturale, o meglio di censo, culturale o più semplicemente geografica (i più svantaggiati erano i ragazzi dei paesi più distanti dal capoluogo) favoriva i più preparati. Per chi viveva a Nuoro, il ginnasio era accessibile a tutti.
Ma i tempi erano difficili anche per le condizioni di povertà o di modesto benessere delle famiglie che allora erano numerose. Nella mia classe non c’erano figli unici; le famiglie erano in gran parte numerose: sette o otto figli erano la norma; qualcuna ne vantava anche dodici, ma il primato era di un nostro professore che faceva parte di una squadra di quattordici fratelli. Pochissimi appartenevano a famiglie benestanti o ricche, ma il loro tenore di vita era sobrio fino alla modestia. D’estate usavamo gli zoccoli e d’inverno gli scarponi con i chiodi perché durassero di più; a scuola le ragazze portavano il grembiule rigorosamente nero ed era frequente lo scambio dei libri scolastici che non tutti possedevano. Un cappotto durava per tutte, mi riferisco alle ragazze, tre anni e poi l’intervento della sarta di famiglia lo rinnovava provvedendo a “rivoltarlo”, magari per passarlo alla sorella più piccola. E infine un tocco di colore patriottico: anche le bandiere venivano riciclate per fare gli abitini per le bambine ricombinando abilmente i colori, con rispetto del tricolore: bianco e verde, bianco e rosso.
Una vita semplice, vissuta senza complessi perché era condivisa da tutti, senza vistose o ostentate differenze. Naturalmente le differenze c’erano; ma le famiglie ricche, poche per la verità, compravano libri, quadri e facevano viaggi.
La guerra aveva spostato all’indietro di secoli le lancette dell’orologio, imponendo una economia di sopravvivenza. Si faceva tutto in casa (dalle calze al sapone) si scambiavano merci in una ripristinata economia di baratto. Era difficile anche reperire i libri. L’ adolescenza dei ragazzi della mia generazione coincide con gli anni del dopoguerra ed stata perciò segnata da difficoltà ma anche dall’ ottimismo di un tempo nuovo, vissuto di riflesso e con una coscienza confusa, mentre si scoprivano forme di vita democratiche, si assisteva ai comizi in piazza, ferveva l’attività dei partiti, si partecipava a un risveglio culturale che arrivava a Nuoro con i libri e col cinema.
Animava questo clima un gruppo di intellettuali nuovi, antifascisti, qualcuno reduce dai campi di prigionia, qualcuno anche dai campi di concentramento. Fra questi intellettuali impegnati politicamente Peppino Catte era una figura di spicco. Gli studenti comprendevano lo spessore della sua cultura e apprezzavano la sua disponibilità al dialogo, che coinvolgeva quelli già politicamente orientati in lunghe e appassionate discussioni, fuori dalla scuola. Professor Catte era allora iscritto al Pci, da cui si stacca nel 1956 dopo i fatti di Ungheria. Ma le sue convinzioni ideologiche restavano fuori dalle aule scolastiche, senza nessuna interferenza nel suo progetto educativo. La fiducia nella sua limpida onestà faceva si che noi studenti e studentesse, in gran parte militanti nell’associazionismo cattolico, ci sentissimo liberi, rispettati nelle nostre opinioni; e questo valeva anche per gli altri insegnanti.
Ma è chiaro che una militanza nell’area della sinistra significava caratterizzare anche le scelte culturali con l’adesione a tendenze nuove negate in periodo fascista e dunque, in controtendenza con le chiusure autarchiche. La linea del suo insegnamento rifuggiva da posizioni schematiche o autoritarie, mentre tendeva a compromettersi col presente, con un realtà in fermento, e a coinvolgere gli allievi nella discussione di fatti e idee, anche al fine di favorire lo sviluppo della loro sensibilità critica in formazione. Entravamo in contatto con uno spazio culturale dove confluiva uno straordinario flusso di idee che i libri e il cinema diffondevano. Particolarmente interessante l’attività di traduzione di una nuova saggistica che riguardava vari ambiti culturali come l’antropologia, la linguistica, la sociologia e la storia delle idee, ad opera di case editrici impegnate.
In testa Einaudi (nella redazione operavano giovani intellettuali di prestigio, tra i quali Pavese e Calvino) che dà tempestivamente inizio alla pubblicazione delle opere di Antonio Gramsci (Lettere dal carcere, 1947); a Mondadori si deve la bella collana “Medusa” che proponeva il meglio della narrativa inglese e americana; mentre nella “Biblioteca Universale Rizzoli” si pubblicavano in veste economica i classici antichi e moderni. Contemporaneamente nelle pagine di riviste importanti come il “Politecnico”, “Officina”, “Cinema Nuovo” si sviluppava un dibattito politico-culturale di grande interesse che raggiungeva anche i centri periferici.
Sono vivi nel mio ricordo i libri “Medusa”, che facevano bella mostra sul tavolo della mitica Biblioteca, intitolata a Sebastiano Satta, originariamente ubicata in un appartamento che dava sul Corso Garibaldi, e diretta in quegli anni da Angela Maccioni, Lorenza Tedde, e da Giovanna Piras, di cui era preziosa collaboratrice Elena Ferrando. L’amore per i libri, la frequentazione della biblioteca erano il risultato di un interesse sollecitato dal nostro professore di letteratura italiana, che proponeva come oggetto di discussione critica temi importanti: lo sviluppo del pensiero storico-politico da Dante a Machiavelli e Guicciardini, le grandi utopie, La scienza nuova di Vico; il pensiero scientifico di Galileo. Con costanti riferimenti alla grandiosa opera dell’Enciclopedia, dava rilievo alla cultura dell’ Illuminismo e, in particolare, agli animatori del “Caffè”: dai fratelli Verri a Cesare Beccaria, autore di quel fondamentale pamphlet storico giuridico, Dei delitti e delle pene, che pone i fondamenti di una nuova cultura giuridica europea e non solo. I suoi cavalli di battaglia erano Manzoni, sia come caposcuola del romanzo in Italia sia per le valenze storico-politiche delle sue opere che preparano il Risorgimento. Fra i suoi autori preferiti Leopardi, che crea i suoi idilli traendo gli umori dalle radici illuministiche della sua sterminata cultura. Ricordo ancora una lezione leopardiana che tracciava un lungo excursus nella tradizione: dalla letteratura greca, Teocrito, alla letteratura latina, Catullo e Virgilio, passando per Petrarca e per l’Arcadia fino alla originale elaborazione dei Canti, con il loro messaggio filosofico e la novità del linguaggio poetico. E mentre metteva la sordina alle esperienze letterarie improntate alla retorica o a forme melodrammatiche, orientava la nostra attenzione sulla grande lezione dei romanzi di Verga, la cui modernità risaltava in una linea ideale avvalorata da suggestive consonanze, e in un confronto con l’esperienza contemporanea del Neorealismo sia in letteratura (a partire da Paesi tuoi di Pavese, 1941) che in opere cinematografiche di registi come Visconti (La terra trema è tratto dal romanzo I Malavoglia), Rossellini, Zavattini.
Ed è ancora Peppino Catte ad indirizzare i suoi allievi alla scoperta della cultura cinematografica europea che cominciava a circolare in Sardegna anche grazie ai circoli privati del Cinema.
Nuoro allora vantava ben tre “sale cinematografiche”. Locale storico era il “Pidocchietto” che raccoglieva un pubblico da Nuovo cinema Paradiso, mentre erano più adeguate e capienti le sale del Cinema Teatro Eliseo e successivamente dell’Arena Giardino. Sono gli spazi della nostra iniziazione al cinema, che amavamo frequentare sin dalle scuole medie, spesso di nascosto. Negli anni del Liceo questa passione si trasforma in percorso di conoscenza e di crescita. L’occasione è offerta dalla istituzione del primo Cine club nuorese, nel 1951; lo testimonia Maria Teresa Pinna, che in quel tempo e in quella circostanza visse la sua storia d’amore col nostro professore di Italiano che diventerà suo marito. L’iniziativa era stata promossa da uno studioso intelligente come Raffaello Marchi che aveva frequentato a Roma per un anno la scuola di cinema, da cui era stato allontanato perché antifascista. Tornato a Nuoro aveva fondato una associazione culturale a cui si deve la messa in scena di sacre rappresentazioni. Con lui facevano parte del direttivo Maria Teresa Pinna, Peppino Catte, Giovanni Antonio Sulas, Carmela Lostia, che ricopriva l’incarico di Presidente. Assistevamo alle proiezioni la domenica mattina nella sala dell’Eliseo, che d’inverno metteva a dura prova per il freddo la nostra incrollabile passione di cineamatori. Qui abbiamo imparato a conoscere la filmografia sovietica, dalla famosa Corazzata Potëmkin a Ivan il terribile di S.M. Ejzenštejn, il cinema d’avanguardia degli anni ’20, con René Clair, e degli anni ’30 con Jean Renoir, le opere di C.Th. Dreyer e quelle del neorealismo italiano.
L’esperienza del primo Cine-club diede frutti duraturi; a distanza di tempo (siamo agli inizi degli anni ’60) l’interesse per il cinema d’essai porta alla costituzione del Cine-club “Charlie Chaplin”, di cui era presidente Salvatore Guiso (facevano parte del direttivo, Sirio Sini, Andrea Cambosu, Cecetto Mascia, Rina Pippia, Giovanna Cerina). L’attività del circolo suscita un grande interesse per l’apertura programmatica che privilegiava da una parte film di grande impegno culturale e civile, come Notte e Nebbia (sui campi di concentramento nazisti), L’arpa birmana (un film pacifista), Niente di nuovo sul fonte occidentale e Orizzonti di Gloria, film contro la guerra; dall’altra opere che s’imponevano per la novità del linguaggio e delle soluzioni registiche, come L’anno scorso a Marienbad.
La cultura cinematografica rappresentava un momento della vita culturale nuorese, che tuttavia annoverava altre importanti istituzioni: il premio letterario “Grazia Deledda”, di prestigio nazionale; l’associazione culturale “Grazia Deledda”, di cui erano animatori Gonario Pinna, Enrico Macciotta, Domenico Ferracciu, Pietro Mastinu, Mario Ladu, Mario Ciusa Romagna, Michele Muzzetto, che invitavano a Nuoro personalità di rilievo per trattare temi attuali o per presentare novità librarie di successo; inoltre operavano attivamente i circoli, sostenuti direttamente dai partiti, dove si discuteva di temi di interesse culturale e sociale come quello sulla scuola, acceso con grande efficacia dalla esperienza della Scuola di Barbiana.
Un evento vale per tutti a testimoniare la crescita di una nuova coscienza: il Convegno sulla cultura in Sardegna, promsso dalla rivista “Ichnusa” di Antonio Pigliaru, che si tenne a Nuoro nel marzo 1958.
Andare a scuola, frequentare il classico era un segno distintivo. La laurea era un traguardo che avrebbe dato prestigio, riscatto sociale, oltre che un lavoro.
La mia generazione ha in eredità un patrimonio unico: l’esperienza dal vivo di un lungo percorso nel tempo che attraversa secoli di una faticata civiltà. Con una divaricazione massima: da un lato una vita ricondotta anche dalla guerra a una dimensione arcaica, arretrata, già segnata da malattie endemiche e dalla piaga dell’analfabetismo; dall’altra una accelerazione, seppure faticosa, verso la modernità: la conquista della cultura, del benessere, la liberazione dalla malaria e dall’analfabetismo, la progressiva rottura dell’isolamento e la conseguente apertura verso il mondo.
In questo difficile passaggio è stato decisivo il ruolo della scuola, il suo prestigio e la sua severità, testimoniati dall’impegno degli insegnanti, anche di quelli che qui non nomino ma che ho ben presenti nel ricordo.
Il professor Catte ha accompagnato fino alla “maturità” il mio percorso di formazione culturale e umana con la sensibilità e l’autorevolezza di un Maestro. Quel poco che ho fatto, con onestà, per generazioni di giovani, porta il segno del suo Magistero. E forse, il suo esempio può avere influito, seppure sotterraneamente, nella mia scelta di affrontare, fuori tempo e non senza rischi, l’avventura di una esperienza politica.
Anche di questo lo ringrazio.