PEPPINO CATTE, TRENT’ANNI DOPO
Trent’anni dopo è ormai scavare nella memoria, dalla quale emergono concetti e analisi veicolati da fatti emozionali. Dei quali la nostra cultura razionalista, moderna, ci invita, a torto, a diffidare. Al contrario, essi ci sostengono nell’aprire finestre che richiamano vissuti, esperienze, intuizioni, progetti, scelte che, presi astrattamente appaiono fors’anche lucidi e completi, ma privi di anima. Per tali motivi una testimonianza, anziché pretendere caratteristiche di obiettività storica, è bene che resti nello spazio del racconto del vissuto, con tutta la soggettività e l’arbitrarietà del caso.
Difficile capire il percorso politico di Peppino Catte senza riferirsi alla scelta forte, quanto lacerante e difficile, compiuta dopo il dramma del 1956. Il rapporto di Krusciov al XX congresso prima e poi la repressione della rivolta ungherese condotta dai carri armati sovietici innescò, nei militanti comunisti più legati ai valori della democrazia e della libertà, una crisi di coscienza che li portò a rifiutare il giustificazionismo dei gruppi dirigenti e ad abbandonare il PCI. Catte, così come Dessanay in Sardegna e Antonio Giolitti a Roma, fu tra coloro che scelsero la strada difficile non dell’abbandono del campo socialista, ma quella di difenderlo coniugando riforme con libertà, democrazia e pluralismo. A questa comune opzione si deve il suo legame con Giolitti che, tra l’altro, lo condusse a rappresentarne la mozione in Sardegna nel congresso del PSI che si tenne nel 1968.
Quell’atto, sicuramente meditato e sofferto, ne accrebbe il prestigio fra i giovani democratici nuoresi, molti dei quali lo seguirono nell’opzione socialista.
Che peraltro fu costellata di difficoltà di inserimento e gli procurò una difficile eredità, quella di un partito indebolito dalle scissioni, la cui consistenza politica e organizzativa nel territorio era tutta da rifondare.
Credo si possa affermare che, nel ventaglio ampio e importante della sua opera politica, la costruzione di un Partito Socialista forte ed autonomo sia stato impegno preponderante. Ciò corrispondeva ad una visione politica e a una scelta di metodo. Si trattava della politica come attività educativa, volta a rendere gli aderenti e i soggetti in genere più capaci di capire criticare e proporre. A tale convincimento corrisponde l’immensa attività svolta in ogni angolo del nuorese per ricostituire sezioni, crearne delle nuove, aiutare la selezione di quadri dirigenti.
La stessa attenzione con la quale riguardava la cooperazione, particolarmente nella pastorizia, testimonia di una propensione marcata per i processi di crescita organizzata delle popolazioni e della ricerca di strade originali ed autonome per la rinascita.
Divenne, così, animatore di un metodo di vivere la politica strettamente collegato alla specificità degli obiettivi che alla politica erano assegnati.
Nella sua proposta, così come è stata trasferita in scritti e discorsi politici, alcuni capisaldi sono evidenti.
Il primo è costituito da quella che definiva “la rivendicazione autonomistica”, concetto che comprendeva la lotta per ottenere dallo Stato, con il piano di rinascita e la risoluzione del problema delle risorse, la riparazione di storiche ingiustizie e il conferimento di poteri capaci di operare il superamento delle arretratezze.
L’autonomia era nata, nella sua visione, come reazione alla condizione subalterna nella quale la Sardegna era entrata a far parte della comunità nazionale. La sua attuazione piena comportava, però, la formazione di una nuova classe dirigente, non più subalterna.
La politica, o meglio, il rinnovamento della politica rappresentavano il mezzo per il superamento della subalternità.
Qui si comprende meglio l’attenzione alla ricostruzione di un partito, quello socialista, che sapesse promuovere il rinnovamento dei programmi e del personale politico.
Nell’esperienza politica che consegue a tale impostazione si evidenziano alcuni punti salienti.
Il primo è l’impegno per il riscatto delle zone interne. Chi ha avuto la ventura di viverne la realtà in quegli anni sessanta e settanta, come chi scrive, ha in sé, come se si trattasse di appena ieri, il senso di angoscia procurato dalla violenza della criminalità che allora imperversava, dalla insicurezza dominante, dalla vacuità dei rimedi proposti da coloro che invocavano la militarizzazione del territorio.
Catte vi contrapponeva una analisi più complessa e faticosa, ma piena di partecipazione e di affetto per la sua terra, e nel contempo lucida.
“La delinquenza, affermava nel 1966, trova terreno propizio nel mondo pastorale a causa non tanto della povertà, ma della precarietà della sua condizione. Fino a quando l’economia pastorale conserverà le sue forme arretrate, la carica delinquenziale, che può essere nel pastore sardo come nel cittadino di ogni paese, non potrà che manifestarsi nelle forme attuali rivelatrici di tale arretratezza”.
Perciò sosteneva la necessità di colmare la distanza fra mondo pastorale e istituzioni, di accostarsi al mondo dei pastori. “Un mondo da studiare evitando di mitizzarlo e con la coscienza che i suoi problemi sono tra i problemi fondamentali della Sardegna e della sua rinascita, problemi la cui soluzione deve costituire una delle prove impegnative per gli intellettuali sardi.”
Una sorta di utopia, se riguardata alla luce dei decenni trascorsi, comunque una visione organica, profonda, appassionata. Piuttosto un progetto, con tutta la carica di innovazione, cambiamento, trasformazione che un progetto politico deve includere. Compreso quel tanto di utopia che conferisce razionalità e convinzione alle ipotesi politiche e le sottrae al pragmatismo ed alla rassegnazione.
Pericolo incombente sulla realtà sarda, “che l’immobilismo, il quietismo della vita e della società sarda finiscano con l’aver ragione ancora una volta della volontà di rinnovamento, con l’imporre il ritmo dell’ordinaria amministrazione……che la visione globale finisca per frantumarsi in visioni e soluzioni particolaristiche”.
L’esigenza reale invece, era costituita da una politica di programmazione dentro la quale inserire la questione delle zone interne e dell’attività pastorale.
“Non si tratta, quando noi chiediamo di intervenire nelle zone interne, di tenere in piedi una economia malata, priva di prospettive e quindi destinata a perire. Non si tratta di operare con una finalità soltanto sociale, senza alcuna giustificazione di carattere economico. Non si tratta di un intervento che sia in contrasto con una politica di piano”.
“Si tratta di avviare una politica di investimenti produttivi nei settori che interessano maggiormente le zone interne.”
Una politica di piano per contrastare le tendenze, spontanee o sospinte, a polarizzare investimenti e sviluppo e ad aumentare il dualismo economico e sociale della realtà sarda. A pensarci bene, quei pensieri racchiudevano esplicitamente, e non solo in nuce, l’idea di uno sviluppo locale che oggi, a distanza di trent’anni, rappresenta l’unica ricetta che viene proposta per avvicinare la prospettiva di uno sviluppo duraturo e autonomo.
Più tardi, siamo nel 1973, denuncerà però l’affievolimento dell’impegno politico per le zone interne: “E’ venuto meno il criterio della globalità dell’intervento, è rimasto un piano per il settore agro-pastorale.” Era la constatazione della difficoltà e delle resistenze che venivano frapposte alle politiche di sviluppo e di riequilibrio. Approssimandosi la seconda legge di Rinascita, riaffermava “la programmazione come la migliore verifica della validità dell’autonomia, come l’occasione migliore per il rinnovamento delle istituzioni autonomistiche.”
Tuttavia denuncia che la crisi della programmazione e la scarsa efficienza dell’amministrazione regionale hanno compromesso seriamente la nostra capacità di far valere la nostra rivendicazione autonomistica.
Ciò non di meno prosegue la sua attività di promozione economica, sociale e culturale fra la gente alla quale era legato. La morte lo colse in una sera di novembre fra i compagni della sezione di Nurallao fra i quali si era recato per una delle tante serate di animazione politica. Era reduce da un incontro con la cooperativa pastori di Nurri, allora agli esordi di una attività che li avrebbe portati a dar vita ad una delle polarità ancora oggi fra le più forti del settore lattiero caseario. Due anni orsono ho avuto l’occasione di incontrare l’attuale presidente di quella cooperativa, che a distanza di tanti anni conservava forte la memoria di quell’incontro e del doloroso epilogo che ad esso era seguito. Sopravviveva netta nel suo racconto l’immagine di un uomo politico vicino agli interessi di quell’area così estesa e problematica della pastorizia, convinto della chiarezza della propria proposta, ma sempre aperto al confronto e all’integrazione. Ma più che rievocazione, era testimonianza della fecondità del seme gettato, rafforzata dalla realtà di quel polo produttivo sostenuto da una organizzazione solidale.
Sbaglierebbe chi pensasse a un Peppino Catte concentrato sulla questione delle zone interne, assorbito da un impegno nobile ma circoscritto nello spazio e nella tipologia sociale di riferimento. Innanzitutto perchè glielo avrebbe evitato il respiro ampio della sua cultura di umanista e la visione politica moderna di cui era portatore.
In secondo luogo perché egli fu partecipe e protagonista di una temperie politica regionale ricca di fermenti e di cambiamenti. Dal suo esordio in Consiglio Regionale nel 1965 con un mirabile intervento in occasione della formazione del primo governo di centro sinistra con la partecipazione dei socialisti, all’impegno come assessore all’agricoltura, allo svolgimento del ruolo di segretario regionale del PSI. Erano gli anni delle speranze, degli entusiasmi e delle innovazioni del primo piano di rinascita, ma anche quelli del sorgere di problemi nuovi, e anche delle prime disillusioni.
In tali difficili passaggi fu guidato da alcuni punti di riferimento saldi.
Intanto dalla fiducia nel lavoro politico di base, nel quale si concentrava quando il pessimismo derivante dalle difficoltà del governare sembrava prevalere. La traccia che da tale lavoro è restata a lungo nelle comunità e nelle istituzioni è servita a noi, a me e a Giovanni Nonne, per non dire di altri, per indirizzare il nostro impegno successivo.
Un lavoro politico intenso ed esemplare per qualità e per il consenso che era capace di suscitare.
Inoltre dall’impegno tenace a contribuire al rilancio dell’autonomismo ed all’unità delle forze autonomistiche. La “rivendicazione autonomistica” rappresentava il terreno d’incontro della politica regionale e lo strumento per ottenere un nuovo piano di rinascita.
Infine dall’istanza riformatrice come necessità e requisito della stessa rivendicazione.
Al di là della lucidità della proposta e della qualità dell’impegno, tanti anni dopo la sua scomparsa conserviamo il segno di una forte componente etica della sua esperienza, della esemplarietà del suo impegno totale, di un insegnamento che ha rappresentato un elemento caratterizzante della sua vita.
Prima di dedicarsi all’attività politica Franco Mannoni è stato dirigente del Provveditorato agli Studi di Nuoro. Dopo essere stato segretario della federazione provinciale del PSI di Nuoro è stato eletto Consigliere regionale per tre legislature dal 1979 al 1994 e ha ricoperto l’incarico di Assessore alla Programmazione, Bilancio e assetto del territorio dal 1982 al 1984. Ha fatto parte del consiglio di amministrazione della SFIRS e ha presieduto l’Osservatorio industriale della Sardegna.