IL NOSTRO PROFESSORE DI ITALIANO
Ricordo la mia classe mista di liceo come giocondamente indocile e, sul piano disciplinare, temibile e terribile. I vari insegnanti erano costretti a prenderci, come si suol dire, con le molle, giacché scherzi e barzellette e battute sulle particolari debolezze di ognuno di essi rasentavano talvolta l’atrocità. In tale clima la coesione tra gli alunni era ottima e nell’aula regnava un’allegria liberatoria che alleggeriva di molto monotonia e pesantezza delle lezioni. Il risultato, almeno per noi, fu che andare a scuola si rivelò nel tempo più un piacere che una pena.
Ma a tenerci fermi e muti sui banchi, in determinate ore, erano lezioni singolarissime, e cioè quelle del docente per eccellenza, il “professore”. Bontà, mitezza e gentile distrazione di quest’ultimo si sarebbero ben prestate agli strali di quel fare provocatorio e ironico che tenevamo con gli altri insegnanti, se non fosse stato per il fascino del personaggio, che ammansiva anche i più incolti e recalcitranti della classe. Si trattava delle ore d’Italiano e Latino, durante le quali un silenzio rispettoso, interessato e spesso propriamente intrigato calava sulla scolaresca. La stessa atmosfera di stima e calore si riscontrava anche nelle altre classi; in particolare le terze erano arrivate, in una loro gaia venerazione, a non chiamarlo più con l’appellativo di “prof”, bensì con quello più domestico di “zio” e inoltre usavano sottolineare ogni sua originale affermazione, al di fuori dei soliti schemi, con un coro rituale: – Compagno, l’Unità non lo dice! E lui sorrideva, bonario e divertito, ma continuava imperterrito nella sua spiegazione.
Il “professore” aveva infatti la bella abitudine d’illustrare più che ampiamente gli argomenti del programma e di non interrogare quasi mai: gli premeva sopra ogni cosa di trasmetterci ambientazione storica, temperie culturale e ispirazione poetica di Dante sempre, oppure, di anno in anno, di Petrarca o Ariosto o Leopardi. Gli accadeva pertanto, nella sua foga ideale, di scordare i minuti doveri scolastici. Non abbiamo mai visto un suo registro, ma ce lo si poteva immaginare come vuoto totale, non solo di voti veri e propri, ma perfino di assenze. A questa vaghezza nella concezione dello strumento scolastico più temuto, noi guardavamo con benigna indulgenza e il sorriso che ci piegava le labbra durante le rare interrogazioni era prossimo ad una affezione materna, come si trattasse di un piccolo neo su quel monumento di straordinaria interdisciplinarità di cui egli ci faceva quotidiano dono.
Come poi riuscisse a rendere lievi e sopportabili anche le ore di Latino era un altro miracolo: la letteratura di un passato remoto, per di più espressa in una lingua morta che non ci era poi molto familiare, veniva evocata alla stregua di magica temperie culturale in cui s’illuminavano di fervore contagioso, ora l’universo terreno di Lucrezio, ora il penar d’amore di Catullo, ora l’alto epos di Virgilio. Prendevano prodigiosamente forma, fra banchi e lavagna, antiche visioni della terra, dell’ esistenza e della storia, quasi fossero presenti e palpabili estri quanto mai vicini alla nostra problematica di giovanissimi che si affacciavano alla vita.
Eppure la trama di quelle lezioni era gramscianamente consistente e complessa, giacché nella ricostruzione di un grande autore confluivano sia gli eventi storici che i fenomeni economici con le correnti filosofiche e scientifiche ad essi contemporanee, nonché le manifestazioni parallele di forme d’arte altre dalla poesia: architettura, scultura, pittura. Ogni apporto individuale alla letteratura era rigorosamente calato nel suo tempo, ampiamente storicizzato, variamente motivato e lumeggiato nelle sue molteplici sfaccettature. Perciò ciascuna lezione veicolava, non solo ogni possibile sapienza nella materia di studio, ma anche una metodologia strutturante che sottendeva una solida visione del mondo ad essa immanente. Ed era quest’ultima a permearci nel profondo, pur non avendone noi netta coscienza, dotandoci di quegli strumenti che ci avrebbero permesso, nel futuro, di leggere qualsiasi testo di qualsiasi epoca collocandolo nel suo secolo ed emettendo un giudizio critico pertinente e pregnante.
A sera, durante lo struscio sul corso della nostra cittadina, un capannello di intellettuali, sempre il solito, sostava a discutere presso la vetrina di una nota farmacia. Al centro, benché spesso seminascosto a causa della sua timida riservatezza, argomentava il “professore”, mentre gli altri passavano in rivista e commentavano gli eventi del giorno. Si trattava di un gruppo che si amalgamava più o meno bene con gli esponenti della sezione locale del “partito” all’opposizione, ma che conviveva in armonia con chi, di qualsiasi estrazione politica, avesse a cuore ideali sociali e civili avanzati. Un quadro, quello del crocchio in animato colloquio, che ci era divenuto abituale e a cui ci eravamo quasi affettuosamente assuefatti.
Ed ecco che vennero i tristi giorni dell’occupazione sovietica dell’Ungheria: il capannello si scompose, fluttuò, si ricompose, ristette pensoso e turbato. Furono settimane di illusioni bruciate, dibattiti accesi, e interrogativi e dubbi e sofferte risoluzioni. Bisognava trovare il coraggio di una scelta definitiva in interiore homine e non nell’ambito di condizionamenti verticistici che pesavano a livello cittadino e generale. Non fu facile schierarsi coraggiosamente su un fronte difforme dalla linea ufficiale del “partito”, affrontare apertamente i fedelissimi della sezione locale e della direzione nazionale, pochi e isolati come erano e soggetti alla censura, e arroccarsi poi in un dissenso basato sulla coscienza individuale che non si arrendeva di fronte ad alcun ricatto.
Certo un grande partito monolitico non perdona né chiude gli occhi su divergenze pericolose, che infatti vengono inesorabilmente bollate come deviazionismo e tradimento.
Furono pertanto tempi di emarginazione e solitaria amarezza, per l’insubordinato capannello (sempre presente, tuttavia, nell’ abituale postazione), e in particolare per il “professore”; il quale in seguito maturò, fra l’altro, anche la decisione di lasciare l’ insegnamento, e ciò fra la costernazione degli allievi di allora.
Quanto a noi ex discenti, in quel momento ci sentivamo il patrimonio scolastico vivente di quell’uomo fuori dal comune. Tuttora succede che, quando ci ritroviamo insieme (avvenga ciò dopo venti o trenta o cinquanta anni) tacitamente percepiamo un filo ideale che ci unisce, uno stesso linguaggio che ci lega in una comune visione della vita e della storia. Una vena pulsante, fra noi, che evoca una voce e un magistero indimenticabili. Una bussola che in pochi istanti ci dà il giusto orientamento per passato, presente e futuro.
Il fenomeno strano, rispetto a quanto è successo dal ’56 in poi, è che tutti noi, pur continuando ad approvare sempre e incondizionatamente l’ardua risoluzione del maestro, perseveriamo al tempo stesso nel seguire fedelmente l’originaria ispirazione politica vigorosa in cui egli ci aveva cresciuto e formato.
Lasciata la scuola, il “professore” prese la via della politica attiva in seno ad un partito che in quegli anni appariva più libero e democratico nel suo impegno sociale.
Così come aveva improntato l’insegnamento alla prassi di una missione, altrettanto egli fece nel suo nuovo campo di azione. E così accadde che fu preso nel vortice di un convincere e di un fare, nel contatto sempre vivo e diretto con l’ elettorato, specie con la sua parte più umile e diseredata. E questo nonostante 1’antica pena per l’esacerbata scissione dal partito padre, per il passato, e la dolente e più lacerante pena per un lutto familiare, per il presente. Di lui, così schivo nel manifestare sentimenti e intime emozioni, si ricorda che il volto mesto e grave si rischiarava nel sorriso solo alla vista della candida spontaneità dell’infanzia. Un vezzo o capriccio di bimbo o bimba avevano il potere di incrinare la superficie di una corazza straziata e di fargli brillare gli occhi d’ilare tenerezza.
E venne una sera di novembre in cui andò incontro alla fine in un piccolo paese delle zone interne. Un infarto lo abbatteva sulla breccia della sua lotta ideale e reale per un mondo migliore.
Una simile morte, tanto coerente con la sua vecchia e nuova concezione dell’impegno politico, sempre calata nel farsi della storia, assunse per noi il significato di una chiamata alle armi. Chiara e pacifica chiamata che dai suoi vecchi allievi esigeva un rigore di vita, pensiero e azione, che dal passato delle antiche e gloriose lezioni si proiettava, lucido e vigile e severo, nelle tempeste del presente.